Volontari in Indonesia combattono il coronavirus

Covid19. Perché la metafora della guerra è quella giusta

Tempo di lettura: 6 minuti

In questi giorni ho letto e ascoltato diversi pareri di comunicatori e sociologi, che sono dell’idea di non utilizzare le parole “contro”, “combattere”, “prima linea”, “trincea” ecc. e di tutte le altre che sottendono la metafora della guerra.[1]

Partiamo subito da una premessa doverosa: la metafora non è semplicemente una ‘figura che abbellisce il discorso’, come ci hanno insegnato a scuola, perlopiù nelle lezioni di letteratura italiana.

La metafora è un vero e proprio schema cognitivo, che noi uomini mettiamo in campo (e non immaginiamo quanto spesso) quando ci troviamo a interpretare un fenomeno nuovo, che richiede appunto degli schemi di conoscenza nuovi.[2] L’applicazione a un pezzo di mondo sconosciuto di un modello interpretativo che abbiamo utilizzato in passato e che ha funzionato per aiutarci a muoverci nel mondo in maniera adeguata alla situazione, ci aiuta a farlo anche in una situazione nuova, che non abbiamo mai vissuto e quindi ci trova impreparati ad affrontarla. Se ci pensiamo bene, si tratta di un processo di vero e proprio adattamento all’ambiente da parte della nostra specie.

Nell’imperdibile Metaphors We Live By (tradotto in italiano da Bompiani con il titolo Metafora e vita quotidiana, ahimé non più ristampato), George Lakoff e Mark Johnson spiegano benissimo questo processo.

I detrattori della metafora della guerra applicata all’epidemia prima, oggi pandemia, del nuovo coronavirus Sars-CoV-2 sostengono che un linguaggio bellico di questo tipo non ci aiuterebbe ad affrontare bene la realtà che stiamo vivendo, perché ci crea disagio, perché l’azione di prevenzione sarebbe diversa nei due ambiti, o perché ci porrebbe in una condizione di lotta tra nazioni che in questo momento non dovrebbe esistere, perché il virus non sarebbe un nemico, in quanto non ci conosce neppure – ma ci uccide! –, o piuttosto perché è dentro di noi e diventa parte di noi – e ci uccide! – o, ancora peggio, perché a livello politico ci indirizzerebbe verso un discorso propagandistico che esporrebbe i governanti a toglierci le libertà e i medici a morire in trincea.

Ma a mio parere queste riflessioni non tengono conto di due cose.

La metafora è sempre una sovrapposizione parziale di due ambiti diversi

La prima è che una metafora è sempre uno schema parzialmente sovrapponibile a un altro, esattamente perché i due ambiti reali (e quindi cognitivi) sono diversi. L’epidemia non è una guerra, in senso stretto. Se volessimo utilizzare un linguaggio puro, scevro da metafore, potremmo definirlo come, né più né meno, la diffusione incontrollata di un virus nella popolazione.

Ma pensiamo per un attimo a restare all’interno di questa definizione. A me vengono già i brividi. Definito in questo modo, il fenomeno ci vede del tutto passivi. Dobbiamo uscirne, dobbiamo controllare il fenomeno prima che sia esso a controllare noi. È proprio qui che entra in gioco la metafora. E la metafora della guerra, in questa fase, di pericolo elevatissimo per la nostra sopravvivenza, è la metafora più efficace che l’uomo può utilizzare, a livello di società (ma anche medico: pensiamo agli anti-corpi o agli antidoti utilizzati da chi combatte materialmente contro il virus), per comprendere adeguatamente e affrontare efficacemente la situazione.

Sentirsi in guerra oggi ci consente di difenderci, restando in casa o proteggendoci con mascherine e guanti, o tenendoci a distanza dagli altri, operazione che richiede un continuo sforzo di concentrazione, degno di una grave e imminente minaccia, per esempio quando andiamo a fare la spesa o incrociamo qualcuno sul marciapiede. Uno sforzo continuo, anzi tanti sforzi, compreso quello che ci dà la forza di restare asserragliati in casa, e con il quale, indirettamente ma di fatto (!) stiamo salvando tante vite, inclusa la nostra. Perché mai come in guerra, e in una guerra combattuta sul campo e che coinvolge la popolazione civile, è in gioco la sopravvivenza delle persone. Uno sforzo che ci consente di fare dei sacrifici sovrumani per il bene nostro e della collettività, come rinunciare al nostro lavoro e al nostro stipendio. Solo per un bene superiore, come la salute, possiamo resistere con tanta motivazione, e compatti come popolo. Non a caso stiamo suonando e cantando l’Inno d’Italia. Non a caso si moltiplicano i gesti di solidarietà, conforto e aiuto reciproco.

La metafora va letta fino in fondo

La seconda è che, come in tutti gli schemi, dobbiamo fare attenzione agli attori in gioco e ai parallelismi tra le parti.

Sostenere che il virus non sia un nemico perché semplicemente non ci conosce è un errore logico, ma ancor prima biologico: il virus non ci conosce, è vero, ma attacca le nostre cellule, iniettando con una programmazione sapientissima il proprio acido nucleico (RNA in questo caso) all’interno delle nostre cellule che, da un momento all’altro, vengono sabotate e si trovano a compiere delle funzioni che non sono più vitali, anzi, determinano un attacco (che i medici stessi definiscono di fuoco amico) delle nostre stesse cellule verso altre cellule dell’organismo, dalla tempesta tossica di citochine in risposta all’infezione, alla febbre, alla distruzione degli alveoli polmonari, all’impossibilità di respirare autonomamente, fino alla morte, in alcuni casi.

Se non è un nemico questo…

La Terza Guerra Mondiale?

È vero, non è una guerra che gli esseri umani e gli Stati devono farsi reciprocamente. E infatti non sono questi gli schieramenti in campo. Quando si sequestrano mascherine alle frontiere, o quando si fanno errori tattici come i ritardi nell’esecuzione di misure e protocolli globali di prevenzione, nell’avvio di alleanze internazionali, è questo l’errore che si fa, perché non si è entrati nel pieno della metafora della guerra: siamo in guerra, tutti gli esseri umani, contro uno stesso nemico (che speriamo non muti troppo nel suo patrimonio genetico, così da restare un solo nemico), un nemico non umano. Questo scenario, sì, ci farebbe agire come un blocco unico e molto più efficace per risolvere il problema. Ed ecco spiegato perché gli stessi capi di Stato, da un lato e dall’altro dell’Oceano, stanno utilizzando nei loro discorsi alle nazioni questa metafora. In fondo, più o meno inconsciamente (esiste anche l’inconscio cognitivo), ci stiamo arrivando.

Odiare e combattere una minaccia pandemica vuol dire allora unirsi, stringersi, collaborare a livello economico, scientifico, culturale, affettivo, per essere più forti e vincere insieme questa difficile battaglia.

Sempre in quest’ottica, il medico che “muore in trincea” non è un soldato che va a immolarsi per la patria (e non vuole esserlo!). Almeno in Occidente il metodo kamikaze non ci appartiene. È un soldato a cui i generali (gli apparati governativi, in questo caso) non hanno dato armi adeguate per difendere se stessi e i pazienti. Ancora una volta, vedete come la metafora funzioni splendidamente.

Dicevo che una metafora è sempre un modello non perfettamente sovrapponibile di un pezzo di realtà a un altro pezzo di realtà. E per questo motivo, e per fortuna, la metafora della guerra non esaurisce tutto quello che stiamo vivendo. L’epidemia sta sovvertendo equilibri, capovolgendo rapporti di forza, forzandoci a ripensare il nostro assetto sociale e comportamentale. Anche qui, per la verità, la guerra non è del tutto estranea. Bensì questa, non essendo in senso stretto una guerra, ma pur sempre una epidemia virale, ci pone in una situazione diversa: quella di avere scenari risolutivi più chiari (al netto di agguati, possibili, trattandosi di un agente che ancora non conosciamo bene) e poter così iniziare a progettare prima la ricostruzione, che sarà psicologica, sociale, politica, economica, culturale. Non siamo in una guerra al 100% e le nostre case non sono soggette a bombardamenti, non dobbiamo rifugiarci nei bunker e possiamo dedicare del tempo a essere sereni e a conoscerci meglio.

Io non conosco parole che possano farci agire meglio di così nell’affrontare nei fatti questa situazione.

Non conosco, oggi, metafora migliore, e più salvifica di questa, per affrontare al meglio come individui e come società questa situazione.

A meno che (all’estremo opposto, per la verità) non consideriamo il virus un amico che può donare, senza combatterlo – e solo ai sopravvissuti, si intenda – una agognata immunità di gregge. Qualcuno in effetti ci ha provato (ma sappiamo com’è andata a finire…).

Se qualcuno dovesse trovarla, sono pronta a cambiare idea.


[1] Un esempio per tutti la riflessione della sempre documentata e lucida Annamaria Testa: Smettiamo di dire che è una guerra, Internazionale.it, 30 marzo 2020 (ultima consultazione: 1 aprile 2020) https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2020/03/30/metafora-guerra-coronavirus

[2] (2) Me ne sono occupata nella mia tesi di laurea in Filosofia La Metafora nelle Scienze Cognitive presso la cattedra di Semiotica della Sapienza Università di Roma

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